Rappresentata postuma, dopo la tragica morte del suo autore – avvenuta quando aveva solo 34 anni – la commedia riprende alcuni temi ricorrenti nella nuova drammaturgia britannica del dopoguerra (paura, alienazione, omosessualità, violenza, potere) ma lo fa con uno stile assolutamente personale che si esprime al meglio sia nel dialogo paradossale e arguto, sia in una costruzione narrativa sempre molto brillante e frenetica.
L’azione di svolge interamente e in tempo reale nello studio psichiatrico del dottor Prentice; oltre al “padrone di casa” che cerca di nascondere le sue scappatelle, la commedia chiama in causa una moglie nevrotica e ninfomane, un’apprendista segretaria forse un po’ troppo ingenua, un allucinante e irreprensibile ispettore sanitario, un giovane e maldestro fattorino d’albergo, un poliziotto con dubbie capacità investigative. Tra situazioni imbarazzanti, tentativi di seduzione, scambi d’identità, aggressioni e inseguimenti, in una folle corsa fatta di litigi e diagnosi affrettate, travestimenti e scomparse improvvise, si corre a ritmo sostenuto verso un finale quasi shakespeariano da “Tutto è bene ciò che finisce bene” spiazzante e assurdo, con tanto di agnizioni ed entrata in scena del deus ex machina.
Ciò che vide il maggiordomo travolge lo spettatore nel gioco dell’amore, della vita e della morte,
rovesciando su tutti gli avvenimenti una comicità che non lascia requie, anche per la straordinaria attualità del suo discorso sui rapporti tra politica, sesso e potere. Quello proposto da Orton è un meccanismo ad orologeria che fa saltare ogni certezza e travolge ogni logica, coinvolgendo nell’azione teatrale personaggi esasperatamente folli (ma in apparenza assolutamente credibili): una sorta di follia dionisiaca in cui soprattutto i coniugi Prentice affogano le loro pulsioni sessuali in litri di whisky (chiaro riferimento ironico di Orton ad alcuni autori suoi contemporanei con Albee e Pinter).
“La commedia che sto scrivendo è una satira intenzionale del cattivo teatro”: così Orton a proposito di Ciò che vide il maggiordomo (in originale What the Butler Saw) e già il titolo evoca scollacciate scene spiate dal pubblico attraverso il buco della serratura, un pubblico che costituisce un tutt’uno con i personaggi – siamo tutti matti (e tutti in gabbia, come suggerisce la nostra scenografia) – in una società in cui ordine e disordine si affrontano carnevalescamente e si rivelano in definitiva come le due maschere d’una stessa realtà bifronte: cane e gatto che si rincorrono in cerchio e poi, ridotti allo stremo “ebbri, disfatti, sanguinanti e drogati” (come recita l’ultima didascalia), decidono che è meglio spartirsi la torta e rimandare ad altra occasione le decisioni “metafisiche” sul senso del reale.
Come aveva già fatto con Il malloppo, messo in scena dalla nostra Compagnia nel 1996, Orton consegna al palcoscenico un testo in cui situazioni apparentemente quotidiane e realistiche vengono fatte esplodere da un dialogo comico sapientemente costruito. Amico e collaboratore dei Beatles, Orton pervade i suoi personaggi di humour macabro e scandaloso (ortonesque è diventato un termine per indicare scandalosamente macabro) e con questa commedia corona una carriera teatrale prolifica ma brevissima, durata dal 1964 alla notte del 9 agosto 1967, quando il suo convivente/amante Kenneth Halliwell lo uccise con nove colpi di martello alla testa e poi si suicidò.
“Il teatro di Orton è apologia del caos, comicità anarchica e dissacrante. E’ l’invenzione di una scrittura che intreccia Oscar Wilde con il teatro dell’assurdo, ma che racconta l’allucinata realtà dei nostri tempi. Con opere ‘scandalosamente macabre’ dominate dal ritmo frenetico delle battute, dei travestimenti e degli equivoci, Orton usa la risata per creare disagio e generare dubbi. Deciso sostenitore di una recitazione improntata al più assoluto realismo, Orton inserisce però nelle sue commedie, quasi a sorpresa, improvvise svolte stilistiche mirando sempre a ottenere un risultato fondamentale per il suo teatro: la compresenza di commedia e minaccia, di satira e follia. Una visione del mondo, la sua, che ricorda un lago di una limpidezza impeccabile in cui un pazzo provocatore abbia versato un’unica goccia di inverosimiglianza, ma straordinariamente concentrata”
(Giorgio Gallione)