Al centro di questo lavoro – con cui la nostra Compagnia torna ad Eduardo dopo ben trentadue anni (“Uomo e Galantuomo”, 1981) – vi è la figura di Oreste Campese, capocomico di una compagnia di guitti, che si reca da De Caro, prefetto (appena insediato) di un piccolo capoluogo di provincia, e gli espone i problemi del suo gruppo: un incendio ha appena devastato il capannone in cui il capocomico e i suoi attori rappresentavano i propri spettacoli.
Tra i due inizia una conversazione – che ben presto si trasformerà in dibattito – in merito alla crisi del teatro, alla drammaturgia contemporanea, all’utilità della scena e al riconoscimento sociale del lavoro dell’attore.
Campese invita il prefetto al suo spettacolo, sperando che la presenza di un’autorità possa invogliare la gente ad andare a teatro; De Caro però rifiuta e lo congeda bruscamente.
Ma Campese, grazie a un fraintendimento, si appropria del foglio con la lista dei cittadini che devono essere ricevuti dalla neo-autorità e lancia una sfida: sarà in grado De Caro di distinguere fra le persone reali e i suoi attori travestiti che eventualmente il capocomico deciderà di mandare in Prefettura?
Dal prefetto si avvicendano – in una sfilata tra credibilità della simulazione e assurdità dell’esistenza – il medico condotto, un parroco (una suora, nel nostro allestimento), una maestra, il farmacista… esponendo i loro problemi: ma saranno davvero ciò che dicono d’essere, o non si tratterà forse di quei miserabili guitti, truccati a dovere e latori di questioni immaginarie ma verosimili?
Pur senza svelare il finale, è interessante evidenziare che, al proposito, i punti di vista dei due protagonisti divergano notevolmente: per il prefetto è molto importante che l’enigma si risolva (soprattutto quando ha il dubbio di trovarsi di fronte a un suicidio), per il capocomico Campese non è poi così importante appurare se si tratti di realtà o di finzione, dal momento che: “Quando in un dramma teatrale c’è uno che muore per finzione scenica, […] un morto vero in qualche parte del mondo o c’è già stato o ci sarà”.
Eduardo invita gli spettatori a considerare il rapporto fra realtà e finzione da una duplice prospettiva: non solo quella di un teatro che guarda alla società e che — come dice Campese — mette “l’occhio al buco della serratura” per riportare sulla scena storie di vita, pezzi di realtà, ma anche quella di una società civile che guarda al teatro considerandolo non un passatempo futile, una realtà marginale, ma uno specchio in cui riflettersi per conoscersi meglio. Per dirla con Campese, più ancora che i fatti, “sono le circostanze che contano”; quelle stesse circostanze che poi producono i singoli fatti concreti. Ed è delle circostanze, non dei fatti, che il teatro deve occuparsi.
L’Arte della Commedia, pur essendo l’unico testo in cui Eduardo ha affrontato in modo tanto rigoroso ed articolato un discorso sulla sua visione del teatro e del mondo del teatro, presenta altri temi importanti che la rendono particolarmente attuale, come evidenziò Luca De Filippo in occasione del suo allestimento del 2000:
“Ho sempre considerato L’Arte della Commedia una sorta di testamento morale, un manifesto sul teatro; leggendola bene ci si rende conto di un tema che credo sia molto più importante ed attuale: questa commedia è un manifesto sul riconoscimento della dignità dell’uomo e della dignità del proprio lavoro. Quello che alla fine unisce tutti i personaggi, in controparte con il prefetto, è la costante tensione verso qualcosa che si va perdendo: la dignità.”
“Il capocomico Campese rivendica una dignità del teatro e quindi una dignità dell’attore e nello stesso tempo ne fissa i doveri, che sono doveri molto impegnativi visto che richiede che la sua professione sia riconosciuta come socialmente utile ed importante. Il parroco rivendica una propria dignità nei confronti della Chiesa, il medico rivendica la dignità della propria professione affrontando la contrapposizione con la superstizione popolare, chiedendo un riconoscimento del proprio lungo lavoro di studio durato per tutta la giovinezza. La maestrina poi rivendica una dignità ancora diversa, che è quella di voler pagare per un reato che altri vogliono rimuovere: ha mandato un bambino nel gelido gabinetto della scuola dimenticandolo, ha un debito
morale che vuol pagare anche contro la posizione dei genitori del bambino morto”.
La nota conclusiva la dedichiamo alle caratteristiche sceniche del nostro allestimento: accentuando la scelta di Luca De Filippo e dello scenografo Enrico Job (allestimento del 2000 già citato, in cui si intravvedevano le rovine fumanti del Capannone) abbiamo ambientato tutta la vicenda proprio all’interno di quel che resta della struttura andata in fumo: lo scheletro e qualche brandello di scena dell’ultimo spettacolo lì rappresentato – che non è tra quelli a cui accenna Campese nella sua conversazione con il Prefetto – ma potrebbe essere proprio L’arte della commedia, cioè la stanza del Prefetto, come a ipotizzare che anche quelli che, nella rappresentazione, dovrebbero essere senza alcun dubbio, personaggi reali (il Prefetto, il segretario di gabinetto, il piantone) non siano invece anch’essi attori che interpretano tali parti. Insomma: teatro nel teatro nel teatro …